"Ma canta?"
Elucubrazioni sul canto nostro, per quel che valgono.
"Canta", "È uno che canta", "Ma canta?". Osservazioni non infrequenti, che si possono leggere in modo diverso. Da stonata irrecuperabile, con un'estensione vocale di più o meno tre note, ho sempre provato sacro timore verso "quelli che cantano", nel senso che ho dovuto farmi la pellaccia per sopportare certe occhiate non proprio gentili nelle occasioni varie e numerose di canto collettivo. Eppure chissenefrega, ho sempre rivendicato il mio diritto al canto e partecipato secondo le mie limitate possibilità ad un rito che considero manifestazione di profonda civiltà.
"Canta", "È uno che canta", "Ma canta?" può non essere necessariamente il dovuto apprezzamento a una delle tante bellissime voci che abbiamo in abbondanza: può essere anche l'espressione di rispetto per chi non si sottrae ad una costruzione comune. Perché sì - i Tre Re di ieri me lo hanno fatto pensare un'altra volta - cantare insieme significa dire "ci sono anch'io", "faccio numero", "faccio potenza", "faccio parte di qualcosa di bello". Significa l'umiltà di accodarsi a chi è più bravo senza rinunciare a fare la propria parte. Significa entrare in un rito che non è ancora archiviato, ricordare e ricordarsi che cantare insieme bisogna, che ha senso solo se siamo in tanti. Cosa sarebbe la cavalcata se solo la cantoria, se solo i migliori cantassero? Uno spettacolo, bello forse, ma che non c'entra niente con quella cosa che ci fa sentire comunità.
Essere una voce bisogna e ha senso solo se siamo in tanti: la sera dei Tre Re e tutti gli altri giorni.