Io, fauna.

Sono uscita, stamane. Ho risalito il fianco della valle,  incantata  dalla luce purissima  della costa, ancora carica di neve, e dalle piccole gemme turgide dei ciliegi selvatici e delle  betulle.

Queste mattine d'aprile! Per quanto fredde, mettono in subbuglio la linfa, gonfiano di vita ciò che dormiva. Ogni alba spingerà un po' più in alto la linea dell'inverno. 

Penso con un nodo in gola che, però, fatalmente ogni inverno spingerà un po' più in basso la linea della cura umana, quella fatica che da secoli accomoda un muretto, ripristina una mulattiera, monda un bosco.
Prendo quota, a tratti la foresta antica lascia sopravvivere ancora erte radure, strappate coi denti all'arroganza della vegetazione. Attraverso il disordinato crescere di una fustaia si intravvedono tracce di terrazzamenti: fin quassù, così in alto eravate venuti a domare il pendio, oscuri eroi di epoche perdute. 

Salgo senza una meta, lentamente, per il gusto di respirare e spiare il trascorrere del tempo. Poi, poco oltre un nucleo di rustici, trovo le tracce. Ho paura, non ci sono rumori che possano mettere in allarme gli animali ed allontanarli:  non voglio incontrare il cinghiale - tantomeno la cinghiala - che ha lasciato l'inconfondibile e brutale segno della sua presenza. Mi soffermo, torno sui miei passi, sono una bestiola timorosa.

Non è Madre Natura che riprende il suo, non è così banale. Viviamo questi anfratti, solchiamo questi versanti da millenni: boschi trascurati e predatori sono figli della solitudine della montagna, o di un rapporto alterato con essa, non l'auspicabile ripristino di un equilibrio.
Io rivendico il mio essere fauna di questa terra e temo per il mio habitat.


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