FAFNIR
«Fafnir è ricco. Ma è un nano», un commento buttato là sul tavolo appena sparecchiato.
Maia si stupisce senza darlo a vedere, ripone la tovaglia piegata: «Passami le sigarette. Non è basso».
La notte di luglio si raggruma pigra oltre la finestra aperta, il languore invita le parole: «No, non è basso. Ma è un nano, vero?». Pare che Abel cerchi un confronto, nel suo modo svagato, scrutando il fondo della tazzina vuota: «Cosa sai di Fafnir?»
Lei si versa ancora del caffè, intiepidito ma forte: «L'ho visto bimbo, c'ero quando è comparsa la peluria sul suo labbro, so qualcosa. Perché ti interessa?»
«Non mi interessa, in realtà. Ma mi infastidisce chi mi si impone allo sguardo. Parlami di lui».
«Fafnir aveva lineamenti passabilmente fini, ma nessuna umanità che li animasse.
Nei giochi infantili non ruzzolava con i compagni, non si sbucciava le ginocchia, non si sporcava. Era conscio di essere nano e credeva che la supponenza potesse passare per distinzione.
Dentro le aule rumorose, nel branco dei fanciulli, veniva, a volte, un po' schernito.
Volle fingere di essere un fuoriclasse sui libri, tentò per qualche tempo di brillare: poi scoprí che lo sdegno era più a buon mercato. Fu allora che prese a parlare a voce troppo alta».
Lui tace, ignora le notifiche sul cellulare. A Maia pare di vedere i suoi pensieri: «Qualche antenato di Fafnir aveva saputo dimostrarsi uomo, sai? Lo aveva fatto così bene che nessuno più aveva riconosciuto la sua natura nanesca».
La piega della bocca di Abel è perplessa: «Sará...».
«Questo caffè è una schifezza. Comunque, Fafnir manca della giusta tempra, manca, soprattutto, del desiderio di educare un cuore umano, capace di compatire. Mai ebbe un moto di simpatia per il più debole o una sincera ammirazione per il più giusto».
«Continua. Dimmi di lui».
«Nelle sere eccitate, lungo i marciapiedi della notte, dentro i locali sudati, la voce stridula di Fafnir si impose. Cercava gregari. Egli poteva ormai competere in aggressività e protervia quasi con chiunque, ma era un nano: indossava vesti troppo costose e possedeva solo il coraggio della sfida e della rabbia. Il suo cuore era una scatola vuota». La rattrista tornare con le parole su queste considerazioni stantíe: «In effetti Fafnir prese a pretendere un rispetto che nessuno era disposto a riconoscergli. Fu anche infelice finché temette lo sguardo di chi vedeva in lui il nano. Ma, in verità, a Fafnir piaceva essere nano, contemplava con orgoglio il suo cuore sempre più vuoto e le sue vesti sempre più ricche. Li contempló tanto intensamente da confondersi e si convinse di essere ammirato.
Si circondò di cortigiani.
Derise chi gli mostrava indifferenza, fu duro con chi non lo blandiva.
Fafnir ora è contento».
La sera, il profumo della lavanda si insinua dentro casa, forse è la lavanda che fa sorridere Abel, forse lo fanno sorridere i suoi pensieri: «E' contento. Fafnir il nano».